di Tommaso Bortolotti
La postmodernità e la filosofia capitalistica hanno contribuito a tracciare un’immagine dell’individuo come entità consumistica. I rapporti umani sono sempre più associati ai benefici che apportano al soggetto; le relazioni, per essere meritevoli del tempo e dell’impegno dedicato, devono essere convenienti, portare più benefici che costi. Qualsiasi relazione che non produce un immediato e veloce sollievo al soggetto viene considerata superflua, dannosa e da eliminare.
In questo quadro storico-filosofico sembra non trovare più posto la soggettività dell’altro. Gli amici, i partner, il gruppo sono sempre più rappresentati come un bene di consumo da cui trarre un profitto, e non si parla della soggettività o dei desideri che l’altro nutre nei nostri confronti; anzi, già dire che anche noi possiamo essere oggetto di desiderio o di aspettative ci mette subito in guardia. Sembra che le persone con cui entriamo in relazione non debbano chiederci troppo, non debbano desiderare nulla da noi, pena essere depennati dal nostro personale taccuino relazionale.
Nonostante l’etologia ci abbia ormai mostrato da decenni come la cooperazione sia stata evolutivamente più vantaggiosa e creativa dell’individualismo, la filosofia postmoderna sembra muoversi secondo un inconscio “principio del più forte”, che relega la dipendenza dagli altri a mera fonte di soddisfazione e guadagno.
Il concetto di dipendenza sembra ormai inscindibile dal concetto di tossico-dipendenza, poiché qualsiasi dipendenza è considerata rischiosa e, in qualche modo, tossica, poiché minaccia la nostra onnipotenza. Essere attraversati da una rete relazionale ci espone sicuramente a numerosi rischi, inclusa l’angoscia di perdere qualche nodo della rete e, di conseguenza, di esserne scossi, mostrando i nostri aspetti vulnerabili ed esponendoci all’angoscia di essere abbandonati. Tuttavia, tale rete risulta essere una caratteristica fondamentale dello psichismo umano, e la nostra capacità di pensiero è inscindibile dalla capacità di creare relazioni. Una relazione sana è tale quando riconosce la soggettività dell’altro, i suoi desideri, le sue aspettative, le nostre responsabilità nei suoi confronti e le sue nei nostri. Tale configurazione relazionale, oltre ad esporci alle angosce sopra citate, ci permette anche di sviluppare una forma di dipendenza generativa, basata sull’incontro tra soggettività, e in grado di formare qualcosa di nuovo e di diverso in cui la relazione diventa qualcosa di più della somma delle soggettività.
Sono persuaso del fatto che accettare la fondamentale dimensione relazionale dell’Essere-nel-mondo ci permetta di godere a pieno della dipendenza, permettendoci di distinguere chiaramente tra una tossico-dipendenza, in cui prevale l’uso e il consumo dell’altro e in cui la soggettività collassa sull’oggetto della dipendenza stessa, e una dimensione di dipendenza generativa di uno stare insieme, che è molto più della somma delle soggettività.
Per approfondire:
Benasayag, M., & Schmit, G. (2013). L’epoca delle passioni tristi. Milano: Feltrinelli Editore.
https://www.lescienze.it/news/2012/10/24/news/cooperazione_origine_vita_rna_cicli_assemblaggio-1325567/
Immagine: © Shutterstock