di Chiara Grassi
Lavorare in Comunità Terapeutica è certamente un’impresa faticosa perché significa, prima di tutto, affiancarsi alla quotidianità di persone in grave difficoltà. Parliamo di luoghi che offrono uno spazio di ascolto, accogliendo la sofferenza profonda di individui che, spesso, non possono manifestarla altrove, perché troppo pervasiva, potenzialmente pericolosa per se stessi e per gli altri e, dunque, difficilmente arginabile. In tal senso, è necessario che si strutturi un ambiente familiare, ma ritualizzato, che possa contenere le angosce, ma contemporaneamente portare il soggetto a valorizzare la propria unicità, con le singolari risorse e il proprio modo peculiare di stare nel mondo.
E’ un lavoro di relazione, che si costruisce vivendo a stretto contatto, giorno dopo giorno. L’obiettivo nelle Comunità è certamente quello di portare il soggetto ad una maggiore autonomia, perché possa pacificarsi, trovando un posto che accolga, sostenga e che costituisca un ponte con la realtà esterna. Ma certamente, anche dalla parte dell’operatore, ci sono incontri che inevitabilmente segnano l’esperienza e che restano, come occasioni uniche di riflessione. Le vite dei nostri pazienti ci regalano in ogni occasione uno sguardo sorprendente: l’incontro tra due persone racchiude sempre delle possibilità di crescita da entrambe le parti, anche in forme inaspettate.
Pietro impegna il lavoro degli operatori in maniera costante, perché incostante è la sua forma in questo mondo: mutevole, insicura, certamente precaria ed insufficiente. Con lui bisogna saper attendere, entrare a passo lento cercando un segno di apertura, il varco per uno scambio, il barlume di un passaggio verso l’esterno, anche illusorio. Si aspetta un Godot, che non giungerà mai.
Pietro è un ragazzo schizofrenico, lo si (ac)coglie nel tentativo di dare forma ad un’immagine di sé frammentata e inerte. Pare non avere una narrazione di sé passata, né un futuro, costantemente incastrato in un presente labile. È piombato in comunità, caduto da chissà dove.
Talvolta questo presente granitico lo trasforma in rifiuto: vorrebbe circondarsi di oggetti sporchi e vecchi, “diventare un barbone”, lo scarto della società, qualcuno di inutile a se stesso e agli altri, un essere che gli altri vorrebbero e dovrebbero necessariamente dimenticare. Alterna, in brevissimo tempo, molteplici identificazioni: ora vorrebbe essere “barbone”, ora “carabiniere”, ora “matto”, ora “donna in gravidanza” e così via. Vive rifugiandosi e si muove in silenzio alla ricerca di spazi isolati, di un posto dove sentirsi al sicuro. Pietro, infatti, ha molta paura.
“Io non ho fatto mai del male a nessuno!”
Lui è sicuramente innocente. È qualcun Altro senza nome che certamente lo provoca, qualcuno ce l’ha con lui e gli rovina la vita di proposito. Qualche volta questo terrore lo blocca, lo trascina a letto in un ritiro immobile, ma, per sua stessa ammissione, “pieno di pensieri”, che non lo fanno riposare, che lo tormentano. Pensieri inenarrabili ed impronunciabili, che ad esprimerli diverrebbero troppo reali. Ci si accomoda nel suo silenzio angosciante, come nella perenne attesa di qualcosa di sconosciuto e, al contempo, malevolo. Un presagio inquietante aleggia: sarà forse oggi la fine del mondo? È possibile esserci ed osservare assieme a lui ciò che sta per accadere, ma è impossibile sentirsi insieme, in una vera atmosfera desiderante. Si attende, bloccati ostinatamente nell’impossibilità di fare e di pensare.
Pietro ha sempre avuto la capacità di muovermi un accudimento materno e viscerale. Nonostante i suoi 18 anni, chiedeva costantemente conforto anche nella cura dei suoi umori e di tutti i suoi scarti, come un bimbo che chiama la madre perché ancora non è in grado di pulirsi da solo. In un’occasione, mi omaggiò dei suoi escrementi sparsi nella stanza che raccolsi senza battere ciglio, anzi, premurandomi che non avesse le coliche. Non sapeva cos’era accaduto, era successo e basta. E bisognava accettare questo come un fatto crudo, incontestabile e inevitabile.
Le occasioni in cui pareva trovare un barlume di tranquillità erano i momenti di creatività, quando ci si adoperava, per esempio, nel costruire una macchina di cartone in cui potesse dormire di notte. Si cercava di inseguire un sogno, aggrapparsi ad una speranza durevole pochi minuti, perché potesse temporaneamente sostenerlo, ma Pietro dimostrava pervicacemente a se stesso e agli altri di essere emancipato da qualsiasi macchina desiderante. Ci usava, come strumento vicario, perché potessimo farci ausiliari di un pensiero che già sapevamo irrealizzabile e si desisteva, dopo poco, perché quell’attività caotica e disorganizzata non gli avrebbe prodotto alcun giovamento. Niente sembrava abbastanza e nulla perlomeno sufficiente.
Il ragazzo era la voce più autentica dell’esistenza umana, così vicino a vedere le cose, nude esattamente così come sono, senza un senso: eravamo entrambi in mezzo al mare, ma mentre Pietro sapeva che il nostro destino sarebbe stato quello di annegare, io continuavo a cercare uno scoglio a cui aggrapparmi, trovando poi solo pietre scivolose.
Erano momenti intensi quelli vissuti al suo fianco, fatti di silenzi e di qualche domanda incuriosita rispetto a come funzionasse il mondo. “Cosa succede se io mi drogo?”, “Come si fa a diventare grassi senza mangiare?”, “Io posso lavorare in discarica?”. C’era una conoscenza rudimentale di cosa accadesse intorno a lui, tuttavia era strenuamente legato ad un solipsismo instabile. Insicuro circa la propria esistenza e senza coordinate per comprendere tutto ciò che si collocava in questo ignoto “fuori”.
Pietro pareva dover necessitare di un “manuale di istruzioni” per organizzare il mondo e se stesso. Tuttavia, le nostre indicazioni erano costantemente messe in dubbio, forse non è la verità, “però forse non è proprio così” e forse ci sbagliavamo tutti. Proprio per tale ingenuità atavica, Pietro non era mai triste, perché non sapeva come si faceva ad essere tristi e cosa questo potesse significare per lui. Ero io, invece, a sentirmi molto triste al suo posto.
Era tutto così grave: i minuti interminabili, la sua totale incapacità nel fermare un desiderio, l’impossibilità assoluta nel godere di qualcosa, la sua condizione penosa che toccava profondamente primordiali paure di annichilimento. Totalmente demolita nelle certezze costruite faticosamente nel tempo, un essere inutile. Uno scarto. E nemmeno noi, dunque, eravamo di qualche aiuto. Era chiaro come nessun riconoscimento da parte di una realtà esterna alla propria avrebbe potuto minimamente sostenere la costruzione di un’identità.
Ricordo che, sovente, Pietro ci escludeva categoricamente, attraverso una paranoia scatenata da impercettibili sguardi. Sottrarsi in quei momenti appariva l’unica soluzione rassicurante. A posteriori, penso fosse l’unico modo che avesse per creare una relazione con l’Altro e che portasse anche con sé un rudimentale desiderio di cura e protezione: “Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”, ricorda Nietzsche.
Questo pensiero mi si mostrò in tutta la sua forza una sera, uguale a tutte le altre sere, quando Pietro pronunciò una frase così potente da farmi sentire completamente prosciugata.
“Non ce la faccio più ad essere così”.
Ero stata allora invasa da una Verità incontrovertibile. Pietro si era per la prima volta ri-conosciuto, aveva affermato la propria esistenza, sbattendomi in faccia quell’incredibile fatica, che mi era sempre apparsa indicibile. C’era stata allora una lacerazione potentissima in quel tempo così immobile ed eterno. La nostra infinita sospensione, da mancare il fiato, si era definita ora in condizione ormai satura. Dopo tale rivelazione, non avevo alcuna parola di conforto per lui, perché tutto appariva abbastanza e tutto sufficiente. Ho ripensato, in seguito, a Narciso che si riconosce: “Ma questo sono io!”, e alla fatica che si sperimenta stando sul lettino.
Sono passati molti anni dall’ultima volta che ho visto Pietro, ma conservo vividamente le nostre ore vissute insieme. Non ricordo i dettagli dell’esperienza, perché la nostra storia mi ha attraversata come un fiume lento che sedimenta riflessioni e ne costruisce progressivamente il letto in cui scorrere.
“I sentimenti vitali colorano di rosa o nero l’atmosfera che circonda il soggetto”, riporta Gozzetti e così la tristezza vitale di Pietro si diffondeva come essenza, attorno al suo spazio.
Credo che la potenza di tale incontro sia intimamente connessa alla forma stessa del ragazzo, che mi costringeva a pensare e sentire al suo posto, tanto che il confine tra i due non era mai così delineato.
Le sue cose, in fondo, erano anche le mie ed ero incaricata dell’annoso compito di dare corpo ad entrambe.
Chi aveva paura? Chi tra i due aveva bisogno di rassicurazioni? Chi, infine, doveva salvarsi?
Per approfondire:
Gozzetti, G. (2008). La tristezza vitale. Fenomenologia e psicopatologia della melanconia. Roma: Giovanni Fioriti Editore.