di Sara Carlesso
Il 10 settembre è la giornata mondiale per la prevenzione del suicidio. I dati statistici riguardo tale fenomeno meritano attenzione. L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) riporta 800.000 casi di suicidio all’anno nel mondo, uno ogni 40 secondi.
È la seconda causa di morte nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 29 anni. Il 79% dei suicidi avviene nei Paesi a medio e basso reddito, ma nelle zone ad alto reddito il tasso è maggiore: 11,5 ogni 100.000 abitanti. In Italia i numeri si aggirano attorno ai 4mila suicidi l’anno, anche se per l’Istat sono in calo; in aumento sembrerebbero invece i comportamenti autolesionistici e i comportamenti suicidari.
Il suicidio viene considerato l’atto con cui “ci si dà la morte”, l’ultimo gesto estremo. Shneidman (1993) lo descrive come un allontanarsi da un dolore insopportabile e non un avvicinarsi alla morte. Purtroppo il suicidio viene spesso guardato come la punta di un iceberg: non vengono approfondite le fondamenta, ossia la storia che porta a questo gesto definitivo. Come afferma Rossi Monti (2012), viene scritta una categoria “ex-post”: il gruppo di persone accomunate dal comportamento suicidario viene considerato una categoria a sé, l’atto compiuto è l’elemento unificante di storie, anche molto diverse fra loro e che non possono essere ricondotte tutte necessariamente ad una psicopatologia.
Il percorso che porta al suicidio varia da persona a persona e si articola su più livelli.
Il primo, la fantasia suicidaria, è in realtà molto comune in tutta la popolazione e non porta necessariamente all’atto, anzi, fantasticare sulla propria morte ha valenza anti-suicidaria e può avere capacità trasformativa.
Al secondo livello si trova l’ideazione suicidaria: è una rappresentazione persistente della propria morte e può prendere la forma di una rappresentazione di “come” darsi la morte.
Il terzo livello si identifica con il comportamento suicidario. Si costituisce come il tentativo concreto di portare a termine la propria vita.
Uno dei fattori di rischio, che più influenzano un comportamento suicidario, è soffrire di un disturbo mentale: solo il 10% della quota totale delle persone che hanno deciso di porre fine alla propria vita non presentava una psicopatologia pregressa (Hawton e Van Heeringen, 2009). Altri fattori di rischio, individuati dall’OMS, sono: tentativi di suicidio pregressi, abuso di sostanze e alcolismo, eventi traumatici, abusi, difficoltà finanziaria o disoccupazione, discriminazione, dolori cronici ecc. Spesso questi possono essere anche dei fattori scatenanti il gesto estremo, se concorrono in situazioni di vita già complesse e dolorose.
I fattori di protezione, identificati sempre dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che aiuterebbero a non compiere il suicidio e ad essere protetti in caso di presenza di uno dei fattori di rischio sopracitati, sono: aver fiducia di sé e delle proprie capacità a far fronte anche ad eventi traumatici, relazioni interpersonali valide, avere delle prospettive sia personali che lavorative.
Una nota a parte deve essere sottolineata per chi resta. Per le persone care perdere una persona per suicidio è un trauma. Il dolore per questo tipo di perdita sembrerebbe avere delle caratteristiche specifiche. Si tratta di una morte inaspettata, violenta e traumatica: lascia i sopravvissuti con la costante domanda se si potesse fare qualcosa di più o di diverso per evitare la tragedia. I familiari e gli amici attorno in un certo senso ereditano il dolore psichico insopportabile provato dal defunto, quando ancora era in vita. Un altro grande problema legato a questo gesto estremo è lo stigma: si riducono i contatti sociali, il silenzio pervade fuori e dentro la famiglia e la sofferenza viene negata in circostanze comuni, quasi il dolore forte facesse da barriera per chi non osa avvicinarsi. Perdere un caro per suicidio significa provare il vissuto di vuoto che egli lascia nelle varie attività di tutti, priva degli affetti, di creatività e di quello che può apportare vita: ne sono colpiti non solo le famiglie direttamente collegate, ma l’intera comunità e società.
Il lutto, soprattutto in questo caso, diviene un’esperienza individuale e complessa che si svolge con dei tempi personali e diversi, il dolore segue una sua strada, non sempre dritta e non sempre con una meta precisa, a volte è una strada che si ripiega su se stessa e non lascia progredire il normale lavoro del lutto. Le persone sopravvissute devono, come negli altri lutti, riadattarsi ad un nuovo tipo di vita. Ma il discorso è più complesso: l’American Psychiatric Association considera questo lutto come un trauma dirompente. Oltre ai sentimenti che fisiologicamente si provano dopo un lutto, i cari del defunto devono arrivare a patti con il senso di colpa esperito per quello che si sarebbe potuto fare o non fare; con la rabbia proprio nei confronti del caro, perché difficilmente si può non provare rabbia con chi è la causa della propria morte. Un altro aspetto da sottolineare è l’impossibilità di ricordare momenti felici con la persona che non c’è più, perché egli ha deciso di non vivere più con i suoi cari e di interrompere qualsiasi rapporto con loro. Vi è presente anche il conflitto tra l’accettare e il rifiutare tale perdita, accompagnato da shock, dolore, ottundimento emotivo, rabbia, vergogna, disperazione, incredulità, depressione, tristezza, solitudine, sentimenti di abbandono, ansia e irritabilità. Si può riscontrare anche una quota di ideazione suicidaria nei sopravvissuti: la vita sembra non avere più speranza e il suicidio ora è visto come un modo per togliersi di dosso quel dolore indecifrabile.
L’OMS ha delineato una guida per la prevenzione del suicidio, chiamata LIVE LIFE, che prevede i seguenti punti: limitare l’accesso ai mezzi utilizzati per suicidarsi (ad esempio pesticidi, armi da fuoco e alcuni farmaci); educare i media a riferire responsabilmente sul suicidio; sviluppare le capacità di vita socio-emotive degli adolescenti; rilevare, valutare e trattare tempestivamente le persone che mostrano comportamenti suicidari e monitorarle. Queste attività preventive devono essere svolte di comune accordo da vari settori della società: salute, istruzione, lavoro, giustizia, legislazione, forze dell’ordine ecc.
Uno degli ostacoli maggiori per la prevenzione resta ancora lo stigma, che colpisce anche i disturbi mentali. Il tabù che ancora aleggia su questi delicati argomenti allontana una persona che sta pensando al suicidio dal potersi affidare ad un professionista della salute mentale. Parlarne, informare, sensibilizzare e normalizzare la sofferenza mentale e la sua cura può essere un piccolo ma importante passo nella prevenzione del suicidio.
Per approfondire:
Hawton, K., Van Heeringen, K. (2009). Suicide. The Lancet, 373, 1372-81.
Pompili, M. (2008). Perdere un caro per suicidio. Psychomedia
Rossi Monti, M., & D’Agostino, A. (2012). Il suicidio. Roma: Carocci.
Shneidman, E. S. (1993). Suicide as psychache: A clinical approach to self-destructive behaviour. Northvale: Jason Aronson.