Immagine: E. Schiele (1915), La morte e la fanciulla.
dove acquistare cialis“Uno ha una nota, che è sua, e se la lascia marcire dentro… no… statemi a sentire… anche se la vita fa un rumore d’inferno affilatevi le orecchie fino a quando arriverete a sentirla e allora tenetevela stretta, non lasciatela scappare più” (Castelli di rabbia, Alessandro Baricco).
di Anna Novello Nella mitologia greca, le figure di Eros e Thanatos rappresentano due elementi profondamente contrapposti fra loro: Eros, l’Amore, forza creatrice di vita; Thanatos, la Morte e la distruzione che essa genera. La rappresentazione di Eros e Thanatos, l’atavico dualismo tra bene e male, tra creazione e distruzione, è stato ripreso da Freud nelle figure della pulsione di vita e della pulsione di morte, concetti fondanti del pensiero psicoanalitico e da lui considerati intimamente umani. La pulsione, che rappresenta il precursore di tutti i processi psichici, è un’entità mitica, grandiosa nella sua indeterminatezza, dotata di una forza che spinge all’azione, in quanto il suo scopo è soddisfare l’eccitamento e, dunque, tende a un oggetto che la possa gratificare. La pulsione di morte, identificata come quella spinta alla distruzione e all’autodistruzione, viene molto spesso confusa con l’aggressività, definita comunemente come una forma di interazione sociale, condotta con l’intenzione di infliggere un danno o altre spiacevoli conseguenze a un altro individuo. Potrebbe infatti sembrare da questo punto di vista che l’aggressività agisca in funzione della pulsione di morte, nella sua brama di distruggere, annientare. Al contrario, però, nel parlare di pulsione di morte non si fa propriamente riferimento al desiderio di morte, suo possibile esito, ma bensì alla morte del desiderio. Il fine ultimo di Thanatos non è dunque la distruzione dell’oggetto, ma la morte del soggetto, la morte della vita. Questo suggerisce che possono essere lette come manifestazioni cliniche della pulsione di morte le forme psicopatologiche che troviamo nella tossicodipendenza, nell’anoressia, le melanconie e alcune forme di ritiro psicotico. L’aggressività può essere invece reattiva, una difesa utile alla sopravvivenza, e, se intesa non come distruttività (forza che volge verso l’annientamento del sé e dell’oggetto), ma come combattività, può lavorare al servizio della pulsione di vita, spinta che invita alla passione e alla vitalità, nella forma di una forza che impedisce l’annullamento della vita, tanto agognata dalla pulsione di morte, in quanto combatte al fine di mantenere vivo l’oggetto buono ed il mantenimento del legame con esso. Da questo punto di vista è, dunque, una manifestazione di un tenace attaccamento alla relazione con l’altro. L’origine stessa della parola, risalente al latino ad-gredior, che letteralmente significa “andare verso”, ci suggerisce che si tratta proprio di una spinta, un movimento, nella direzione del soddisfacimento di un desiderio o di un bisogno. Nei rapporti interpersonali l’aggressività è quindi una condizione dell’animo che mette in moto, permettendo di avvicinarci alle cose e agli affetti di cui necessitiamo per il nostro benessere e non ha di per sé un legame con la patologia. Assume una connotazione patologica nel momento in cui diviene distruttività o quando viene a mancare la possibilità di sublimarla o trasformarla in combattività a favore del legame. Infine, la differenza tra l’aggressività al servizio della pulsione di vita e quella al servizio della pulsione di morte non risiede tanto nell’intensità dell’emozione, che può essere equamente estrema, ma nella qualità dell’oggetto attaccato. L’aggressività è difensiva quando è diretta verso un oggetto cattivo, che a sua volta distrugge, mentre invece è distruttiva se si volge verso un oggetto buono, che accoglie e contiene. Possiamo quindi pensare alla pulsione di vita e alla pulsione di morte, così come alle loro molteplici manifestazioni, tra cui le differenti forme di aggressività, non come forze in contrasto che combattono al fine di eliminare ciascuna il proprio opposto, bensì come dimensioni che convivono in una dialettica conflittuale e complementare insieme, all’interno della quale l’una trova il suo senso solo nell’esistenza dell’altra. Come già diceva Eraclito nella Grecia presocratica, l’unità origina nell’eterno conflitto degli opposti. La psicoterapia, in questo senso, permette una rilettura di tutto ciò che a volte sbrigativamente smistiamo nell’affollatissimo elenco delle parti “cattive” di noi stessi, mentre forse si tratta di poter guardare, comprendere e accogliere anche quelle parti. Questa prospettiva suggerisce quindi che quei vissuti, considerati spiacevoli, che spesso tendiamo a voler eliminare, fermandoci a leggerli solo come sintomi, siano invece una parte integrante e costitutiva dell’esperienza vitale.“Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo” (Eraclito).
Per approfondire:
Freud, S. (1920): Al di là del principio di piacere. OSF, vol. 9. Torino: Bollati Boringhieri.
Freud, S. (1923): L’Io e l’Es. OSF, vol. 9. Torino: Bollati Boringhieri.
Mangini, E. (2023). Sul concetto di pulsione e pulsionalità. Spiweb.
De Masi, F. (2020). Pulsione di morte. Spiweb.
Le Guen, C. (2008). Dizionario freudiano. Roma: Borla.