di Giuseppe Parisi
Un mondo racchiuso in una semplice domanda. Uno spazio che si crea e unisce anime, dalle più piccole alle più adulte, che condividono qualcosa in un dato momento. Ma siamo ancora in grado di giocare? E cosa significa, dal punto di vista psicologico, questa attività che spesso diamo per scontata?
Ci siamo posti queste domande per cercare di risalire al significato simbolico più profondo che assume il gioco per il neonato, per il fanciullo e non solo: anche per la parte di sé bambina che alberga nella personalità adulta.
I contributi psicologici più importanti a noi pervenuti riguardo alla valenza fondamentale del gioco per la vita mentale arrivano dal pediatra e psicoanalista Donald Winnicott. Egli ha avuto il merito di portare alla luce dei concetti nucleari che hanno rivoluzionato non soltanto lo studio dell’età infantile, ma anche le manifestazioni che il “saper giocare” porta con sé nel corso dell’intera vita dell’individuo.
Dall’iniziale presa di coscienza che il bambino non esiste come entità a sé, ma solo come parte di una coppia (madre-bambino), egli ha via via sviluppato un approccio terapeutico al bambino che si fondava sulla libera espressività, che per l’autore è la via maestra per entrarvi davvero in contatto (WInnicott, 1974). Nasce così il gioco dello scarabocchio (squiggle), un’esperienza condivisa tra terapeuta e bambino in cui si co-costruisce un disegno, senza regole specifiche. Questo aspetto proiettivo consentiva al bambino di poter esprimere liberamente la propria interiorità ed entrare in relazione con l’adulto tramite il gioco.
Successivamente, in Gioco e realtà, Winnicott svilupperà le idee più mature del suo pensiero, mostrandoci come il gioco sia una vera e propria forma di terapia sia con i bambini che con gli adulti. Scrive infatti: “Se il paziente non può giocare, bisogna fare qualche cosa per consentirgli di avere la capacità di giocare”.
Se ci chiediamo in cosa consista, ad esempio, l’aspetto ludico del gioco nell’adulto, possiamo provare a pensare a tutte quelle peculiarità soggettive che ci rendono più o meno fantasiosi come persone, come ad esempio l’umorismo, la scelta delle parole, le inflessioni della voce (Geets, 1981). Ma anche e soprattutto la creatività intesa come un modo originale e personale di percepire la realtà, che dona al soggetto il sentimento che la vita valga la pena di essere vissuta (Winnicott, 1971); tutto il contrario della passività e della completa adesività al reale, che spengono quel colore, quella linfa vitale, facendo apparire tutto poco importante, futile.
Proprio per questo sono così importanti il gioco e la creatività: fanno sì che la mente possa avere uno spazio dove esprimere ed esprimersi, nonché un’attitudine “a creare, a riflettere, a immaginare, a far nascere, a produrre un oggetto”. La vita senza creatività, infatti, parafrasando André Green, è solamente un fatto svuotato di significato; non un’esistenza, ma un’abitudine che si alimenta solo dei propri meccanismi.
Ci siamo chiesti allora da dove nasca la capacità di giocare, che si associa a una vita mentale e interiore ricca. Una possibile risposta viene dall’idea dell’autore di spazio potenziale o transizionale (Winnicott, 1951), ovvero una zona di illusione che sta in mezzo tra la soggettività e l’oggettività. Quando infatti il bambino è molto piccolo, è come se si illudesse di creare lui stesso l’oggetto che lo nutre e lo soddisfa, proprio lì dove lo desidera, poiché non ha ancora i mezzi psichici per concepire una differenza tra se stesso e il mondo esterno. L’illusione in questione nasce anche e soprattutto dalla capacità di chi si prende cura del bambino, di agire adeguatamente e con il giusto timing. In questo modo il bambino svilupperà gradualmente la possibilità di scoprire l’esistenza di un oggetto separato dal sé, che andrà a costituire successivamente un primo frammento rappresentativo del mondo esterno.
In questo senso, sembra che il precursore del gioco come attività (playing) sia il primo oggetto a cui il bambino si lega visceralmente nei primi mesi di vita, che sta a rappresentare simbolicamente il caregiver (chi se ne prende cura). Solitamente viene scelto dal bambino un orsacchiotto, una copertina, un oggetto comunque morbido, che porti con sé l’odore della madre, la sua presenza, che sta al confine tra il sé e il mondo esterno e sostituisca l’oggetto materno reale nei momenti di assenza. Questo oggetto viene chiamato dall’autore oggetto transizionale (Winnicott, 1951), proprio perché si inserisce in quello spazio potenziale tra me e non me, rappresentando un ponte sospeso tra l’oggettività del fenomeno (il dato di realtà) e la soggettività dello stesso (“Sono stato io a crearlo”). Nessuno chiederà mai, o si aspetterà che il bambino sappia, se quella copertina sia magicamente apparsa o sia sempre stata lì, poiché per il bambino essa fa parte di uno spazio intermedio di esperienza che è solo ed esclusivamente suo.
Per chiarire ulteriormente questo punto, Winnicott ci spiega che di fatto non è l’oggetto ad essere transizionale, ma il transito si riferisce all’individuo che gradualmente passa da una totale fusionalità con la figura materna, periodo nel quale non può esserci separazione, ad una situazione più matura di differenziazione tra sé e l’altro, in ottica relazionale.
In questo momento cruciale della vita, il neonato sarà immerso in un’area intermedia di esperienza, nella quale potrà sentirsi sicuro di sperimentare e scoprire, giocare e creare, presupposto fondamentale per un mondo interiore ricco, simbolico, tridimensionale, che sappia attingere ad elementi artistici, poetici, musicali, o semplicemente in grado di prendersi una pausa dall’incessante lavoro di realtà, sulla realtà e nella realtà (antitetico al mondo illusorio) in cui ogni giorno siamo inevitabilmente immersi.
“La realtà è scadente”, fa dire Sorrentino a uno dei suoi personaggi in È stata la mano di Dio. Il gioco nelle sue varie forme rappresenta uno strumento non solo espressivo ma anche, allo stesso tempo, terapeutico: arricchisce di nuovi significati un mondo che a volte ci fa male perché si mostra ai nostri occhi sotto una lente grama e spoetizzante. Nella vita adulta, la capacità di giocare non è quindi un mero tentativo di evadere dalla realtà, ma una dimensione che permette di astrarsi dal dolore, anche solo per un po’, e rielaborare quella realtà in una versione più facilmente tollerabile, leggera e, perché no, anche divertente.
Una sospensione, dunque, che può avvenire in qualsiasi momento; basti pensare a quando siamo immersi a giocare al nostro gioco preferito e perdiamo momentaneamente la cognizione del tempo e dello spazio. Ne usciamo, spesso, rigenerati e maggiormente capaci di riprendere a fluire, come un fiume, con attenzione e concentrazione ritrovate.
Per approfondire:
Winnicott, D.W. (1953). Oggetti transizionali e fenomeni transizionali. In: Dalla Pediatria alla Psicoanalisi, Firenze: Martinelli.
Winnicott, D.W. (1971a). Gioco e realtà. Roma: Armando editore, 1979.
Winnicott, D.W. (1971b). Colloqui terapeutici con i bambini. Roma: Armando editore, 1974.
Geets, C. (1981). Winnicott. Roma, Armando editore, 1983.