Se vi capita di sentirvi tristi per una recente delusione, se provate ansia durante una festa o se un commento critico vi infastidisce, ecco, reggetevi forte: siete affetti da una sana emotività. Sia chiaro: se alcune sensazioni sono persistenti, durature e intense al punto da impedire lo svolgimento delle attività quotidiane o provocare un importante senso di disagio o sofferenza, può essere il caso di soffermarsi a riflettere su quello che stiamo provando e chiedere aiuto. Nella maggior parte dei casi, però, fare esperienza di una gamma variegata di emozioni è una parte imprescindibile dell’essere umani.
“Emozione” è una parola che ha origini lontanissime e riguarda un’area dell’esistenza che sicuramente precede la nascita stessa del linguaggio. Il latino “emovère” significa “scuotere, smuovere”, che tipicamente si oppone all’azione invisibile del pensare, che deriva dalla ratio, la ragione. Provate a risolvere un’equazione matematica mentre state correndo: presto vi renderete conto che per pensare meglio dovrete fermarvi.
Mentre l’arte indaga le molteplici sfumature dell’animo umano da millenni, la scienza ha sviluppato solo in tempi recenti un approfondito interesse per le emozioni e alcuni strumenti utili per analizzarle. Lo psicologo americano Paul Ekman ha studiato l’espressione delle emozioni in varie culture, tra cui una tribù di indigeni della Papua Nuova Guinea, in Oceania. Le sue ricerche mostrano che alcune emozioni, definite primarie, vengono riconosciute dagli esseri umani di culture anche molto distanti e differenti tra loro, e vengono manifestate con le medesime espressioni del viso.
Le emozioni primarie sono gioia, paura, rabbia, tristezza, sorpresa e disgusto. Le emozioni primarie sono universalmente riconoscibili e codificabili: ciò significa che hanno una base biologica e quindi rivestono un’importanza evolutiva fondamentale, infatti contribuiscono alla sopravvivenza non solo dell’individuo ma anche e soprattutto del gruppo di appartenenza. Ad esempio, mostrare paura di fronte a un pericolo permette a chi è vicino a noi di aiutarci, fuggire o allertare i nostri simili. Sono invece definite secondarie le emozioni la cui espressione varia a seconda della cultura e dell’apprendimento. Non sono biologicamente determinate ma derivano dall’interazione e dallo sviluppo sociale. Alcune emozioni secondarie sono l’orgoglio, la vergogna e la nostalgia.
Nella comune esperienza, alcune emozioni ci risultano più gradevoli e invitanti, sia quando le leggiamo negli altri sia quando siamo noi stessi a provarle, mentre altre possono innescare qualche disagio o turbamento. Un’aspettativa, tanto ideale quanto irrealistica, potrebbe essere una vita senza emozioni cosiddette negative, ma questo è il punto: ha senso parlare di emozioni “positive” e “negative”? Siamo sicuri che le prime siano fonte esclusiva di benessere e le seconde ci mettano sempre e solo in crisi? Ricordiamoci che emozioni come paura, rabbia e tristezza hanno un ruolo cruciale per la sopravvivenza. Inoltre ogni emozione, per suo intrinseco significato, ci smuove, e la valenza di questi scossoni può essere un potenziale innesco di un cambiamento, benché minimo, ma comunque importante.
La parola “crisi” deriva dal greco κρίσις che significa “decisione”: identifica un momento di passaggio da una fase ad un’altra. Originariamente non ha un significato né positivo né negativo, ma identifica una linea di separazione fra due tempi, un “prima” e un “dopo”. La crisi, in questo senso, è uno stato di perturbazione. A livello esistenziale può succedere di attraversare delle vere e proprie tempeste emotive, ma come le perturbazioni atmosferiche, che possono arrecare danni ma al tempo stesso irrigano la terra, anche le perturbazioni emotive non sono di per sé portatrici di conseguenze negative. La siccità emotiva non è un riparo sicuro dal malessere.
La fortuna per gli antichi Romani era la sorte, buona o cattiva che fosse. La stessa doppia valenza si riscontra nella parola “fortunale”, sinonimo di tempesta, che a seconda del punto di vista può destare sensazioni diametralmente opposte: è un pericolo per i marinai ma una benedizione per gli agricoltori. Questa ambiguità è a mio avviso molto rappresentativa del drammatico spaesamento (ma anche dell’affascinante complessità) dell’esistenza.
Freud (1919) definisce perturbante quel misto di attrazione e paura che in alcuni momenti fa vacillare le nostre certezze. A proposito di perturbante e perturbazioni, mi viene in mente un dipinto di William Turner, Tempesta di neve. Battello a vapore al largo di Harbour’s Mouth. Come un’immagine olografica, allo stesso tempo bidimensionale e tridimensionale, a seconda del punto di vista mostra un aspetto differente: dramma, instabilità e distruzione; creazione, sogno e sublime.
In una società votata all’apparenza e alla performance possiamo cadere nella tentazione di considerare la nostra emotività come un fastidioso intralcio o come un’asperità da livellare. La scienza e l’arte invece ci insegnano che le emozioni sono importanti messaggere che possono difenderci dai pericoli interni o esterni, e favorire una maggiore comprensione di noi stessi.
“È pur sempre bellissima un’emozione”, canta Elisa. Può essere difficile accogliere i nostri turba-menti, ma quando ignoriamo la nostra emotività, probabilmente ci stiamo perdendo qualcosa.
Per approfondire:
Ekman, P., Friesen, Wallace V. (2007). Giù la maschera. Come riconoscere le emozioni dalle espressioni del viso. Firenze: Giunti Editore.
Elisa (2009). Anche se non trovi le parole. Dall’album Heart, Sugar Music. https://www.youtube.com/watch?v=7zJnUeJjJFg
Freud, S. (1919). Il perturbante. OSF, 14. Torino: Bollati Boringhieri, 1991.